30 giugno 2014

Gubbio, le tavole, gli umbri

Che cosa sono le Tavole di Gubbio?
 Le sette tavole di bronzo furono trovate nell'area del teatro romano di Iguvium intorno alla metà del Quattrocento: il Gabrielli nel 1581 pone il ritrovamento nell'anno 1444, ma l'unico documento certo è l'atto notarile del 1456 con il quale il Comune di Gubbio acquista le tavole da una certa Presentina, che le aveva trovate.
 Si tratta di fusioni in bronzo realizzate con il metodo della “cera persa” (Agostiniani 2010) per preservare antichissimi testi conservati negli archivi della confraternita Atiedia, che sino ad allora dovevano essere stati copiati su materiale deperibile (tela, pelli, foglie, legno).
 Le tavole sono state redatte in momenti diversi e da mani diverse, ad uso dei membri della Confraternita Atiedia che gestiva le cerimonie pubbliche a Gubbio. La presenza di fori per l'affissione dipende dal fatto che in un secondo momento (forse in epoca augustea) le tavole furono esposte, probabilmente per esaltare la nobiltà delle radici culturali di Iguvium.
 In base all’analisi dei caratteri epigrafici (confortata oggi dalle analisi fisiche), si può dire che la tavola III e la tavola IV sono state fuse alla fine del III sec.a.C., mentre le tavole I e Il risalgono all’inizio del Il sec.a.C.; la tavola V è stata stesa in grafia epicoria dopo che in Umbria era stato introdotto l'alfabeto latino e quindi intorno alla metà del Il sec.a.C.; la stesura di quelle in alfabeto latino (tavole VI e VII) va attribuita all'inizio del I sec.a.C.

Contenuti delle Tavole
L’estensione dei testi e i corpi fisici delle tavole non si corrispondono. Nelle sette tavole si possono distinguere nove testi come segue: (1) una redazione compendiaria della cerimonia piaculare e di quella lustrale contenuta nelle due facce della I tavola; (2) una redazione estesa delle due stesse cerimonie contenuta nelle tavole VI (facce a e b) e VII (faccia a); (3) una stesura delle prescrizioni relative alla cerimonia "per auspici avversi” contenuta nella faccia a della Il tavola; (4) un testo relativo al sacrificio del cane, nella stessa faccia a della Il tavola; (5) il dettato concernente la cerimonia delle riunioni tributarie, che occupa la faccia b della lI tavola; (6) il complesso cerimoniale delle Sestentasie, che si estende nelle tavole III e IV; (7) le norme sui compensi e sulle multe che regolano le funzioni dell’officiante, che occupano la tavola V nella faccia a e in parte della b; (8) le norme tributarie che riguardano gli scambi tra le comunità confederate e la confraternita, nella faccia b della V tavola; (9) doveri e multe del capo dei confratelli, nella faccia b della VII tavola.
Gli archetipi
Per il testo del piaculo e della lustrazione dovevano esistere due archetipi, uno dei quali, più antico, è stato riassunto nella tavola I, mentre l'altro, più recente, è all'origine del testo delle tavole VI e VII. Non si deve dunque pensare che la redazione breve delle due cerimonie sia il riassunto della redazione lunga delle stesse.

L’importanza delle Tavole
Delle tavole di Gubbio si può ben dire come del «più importante testo rituale di tutta l'anti chità classica ... »: acquisizione sul piano scientifico (Devoto 1974) di ciò che dovette apparire sul piano emozionale ad uno studioso meno noto della prima metà del Sette cento (Bagnolo 1792, postumo): «documento sommamente prezioso, a cui altro simile fra tanti avanzi dell'antichità non è rimaso in tal genere, che ci presenti a disteso tutta l'intera serie, e l'eco nomia di quella sagra funzione» .

Sono sempre state sette.
La tesi che le tavole fossero 9 e che due si siano perdute a causa di un loro trasferimento a Venezia nasce da un equivoco diffuso da Lean dro Alberti (1550) nella sua “Descrittione di tutta Italia”. Fonte di un altro errore è Stefano da Cremona che, nella traduzione italiana della sua “Vita di S.Ubaldo” (1523), parla di 4 tavole in caratteri latini e 4 in caratteri etruschi; mentre nell’originale in latino del 1519 ne aveva menzionate sette.

Aspetti della religione umbra
 Superstrato e sostrato
Nell’Italia preromana vanno distinte due fasi culturali, entrambe di ascendenza indeuropea: una pertinente all’età del bronzo recente, quella che chiamiamo “paleoumbra” e una pertinente all’età del ferro, che chiamiamo safina. La prima era portatrice di una visione bipartita del divino, uranio (celeste) e ctonio (interno al terreno); la seconda di una visione tripartita, quella che vede il divino (come l’umano) articolato in potere della parola magica e creatrice, potere della forza materiale, potere della vitalità e della fecondità. Nel mondo delle Tavole le due esperienze culturali sono intrecciate e fuse.

La triade Grabovia
La triade Grabovia è costituita da Giove Grabovio, da Marte Grabovio e da Vofione Grabovio. La presenza di quest'ultimo teonimo sullo stesso piano dei precedenti induce a credere che anch’esso avesse fin da epoca preistorica una funzione centrale nel sistema ideologico. Appare corretta la vecchia tesi secondo cui l'umbro Vofion- vale 'divinità del clan', e come tale è espressione della funzione riproduttiva. È il corrispondente umbro del romano Liber di età arcaica, prima che perdesse i caratteri di divinità dei liberi per assumere quelli dovuti alla sua identificazione con Dioniso.
Poiché nel pantheon iguvino  la religiosità delle genti “safine” è coordinata  con quella delle genti “paleoumbre” dell'Italia centrale, sarà legittimo pensare che le tre divinità Giove Marte e Vofione hanno l'attributo di Grabovio in quanto invocate in funzione Grabovia, cioè in quanto esprimono i caratteri propri di una divinità locale paleoumbra, Grabo appunto, di cui assumono il posto.

Giove padre
Si staglia su tutte le altre divinità quella di Giove padre, che è il patrono del monte Fisio (quello che domina Iguvium) e della confraternita Atiedia. Conserva i caratteri indeuropei della sacralità e della regalità e rappresenta anche in territorio italico la funzione sacerdotale tipica del paterfamilias indeuropeo.

Marte agrario e guerriero
Oltre a Giove, l'altro solo teonimo iguvino che può essere considerato in qualche misura ereditario è quello di Marte, divinità dalle funzioni agrarie e guerriere al contempo. La cosa si capisce ricordando che già nella tradizione indeuropea il signore dei beni agropastorali è anche uomo d'arme: e l’ottimate italico ben compendia questi caratteri, come ricorda la figura di Cincinnato.

Religiosità dei teologi e religiosità popolare
Le divinità iguvine sono lo sviluppo più avanzato della idea di “funzione divina”, già presente nel sistema ideologico indeuropeo. Si deve però tener conto che la religiosità che si esprime nelle tavole è quella dei teologi della Confraternita: questa appare ben diversa da quella religiosità popolare umbra che ha lasciato come sua traccia più vistosa i numerosi “bronzetti italici” rinvenuti dagli archeologi, (immagini di dèi rozzamente antropomorfe deposte in terreno consacrato).

La “teologia dell’Atto”
Dalla religiosità indeuropea ereditaria si è sviluppata in ambiente italico una vera e propria rivoluzione teologica, grazie alla quale il divino è stato visto manifestarsi in ogni Azione ideologicamente significativa per la comunità. Questo è stato possibile inquadrando inizialmente le Azioni nell’ ambito di attività di un “dio tradizionale”.
Una volta avviatasi la nuova “teologia dell’Atto”, alcune nozioni si sono trovate subordinate all’ambito di un “nome divino”, ma altre sono poi state direttamente divinizzate senza l’immissione in una sfera del divino tradizionale. Nel primo caso l’assegnazione si esprime attraverso binomi, come Tefro Giovio ‘il Focolare’ (appartenente all’ambito di Giove) o come Ahtu Marzio ‘l’Atto sacrificale’ (in questo caso espressione di Marte); nel secondo si hanno dei monomi, come Spetur ‘l’Osservatore’ (augurale) o Pordoviente ‘l’Offertorio’, che non sono assegnati a questo o quell’ambito divino, essendo propri di tutti i sacrifici.

Gli ”ambiti del divino”
Divinità dell’Atto di ambito "giovio" sono Tefro 'il Focolare' (umbro  tefro- da *teps-ro- 'riscaldatore'), Trebo 'l’Abitato' (da *treb-o- 'edificazione'), Hondo 'il Vittorioso' (da *ghoundh-o- 'sconfiggitore'), Torsa 'la Fuga' (dei nemici, da *tors-a- 'terrorizzatrice'), Dicamno 'la Dedicazione' (nel sacrificio, da *dika-m(e)no- 'che viene dedicato'), Ahtu 'l’Azione' (sacrificale, da *ag-tu- 'azione').
Divinità dell’Atto di ambito "marzio" sono Ahtu Marzio 'l’Azione' (sacrificale), Picovio Marzio 'il Picchio' (augurale), Çerfo Marzio 'il Principio della crescita' (vegetativa).
Çerfo è un "rimpiazzo" dovuto all'imporsi di un ambiente speculativo legato alla logica triadica, su di un ambiente in cui Marte aveva da tempo assorbito in sé due delle tre funzioni ereditarie. Infatti esistono un Ahtu Giovio e un Ahtu Marzio, ma non un *Ahtu Çerfio, in quanto Ahtu è l' 'Azione Sacrificale', ed esprime la presenza del divino nell'ambito del sacrificio: e questo è  attributo tradizionale  di Giove e di Marte, non di Çerfo.

Fisovio Sancio
Il teonimo Fisovio Sancio è il rifacimento di un appellativo che in origine doveva suonare dieus fissios sankios col significato di ‘Giove protettore della sacralità dell’impegno’. Corrisponde al latino Dius Fidius e al greco  ‘Giove protettore della parola data’. Fiso rappresenta la sacralità dell'impegno tra gli uomini, Fisovio quella tra l'uomo e la divinità.


Aspetti della ritualità
 Rito uranio e rito ctonio
Nel culto iguvino si osservano due procedure rituali differenziate: il rito “uranio” e quello “ctonio”. Nel caso del primo le vittime si consacrano sul tavolato e le viscere si offrono nel fuoco dell’ara; nel caso del secondo le vittime si consacrano per terra e le viscere si offrono nella “fossa”. Il tutto in perfetta coerenza con le divinità rispettivamente del cielo e della terra.
 Il poni consacrante
L’espressione poni fetu, cioè ‘consacri con il poni’ è usata in ben 18 sacrifici iguvini. L’umbro poln-i- coincide formalmente con il latino pollen ‘fior di farina’, e funzionalmente corrisponde al latino mola salsa, la ‘farina di farro tostata e salata’ usata a Roma per la consacrazione. Anche il poni umbro era ‘tostato’: nella tav.IV alle righe 30-31 si parla appunto di poni frehto ‘farina tostata’.
L’impasto sacrificale
Una delle offerte incruente più importanti è la uestiśa, termine umbro che traduciamo con ‘impasto’, giacché coincide perfettamente con l’aggettivo latino depsticius 'ben impastato' (Catone, De Agr. 74). Si tratta di un antichissimo prestito miceneo che in latino si è affermato con d- originale, mentre in umbro è continuato nella variante con “l- sabino" (un l-  iniziale in umbro è di norma reso con u-/v-). Numerose sono le coincidenze tra i nomi dei “pani sacrificali” iguvini e quelli romani: ficla:fitilla, mefa:mensa, struçla:struicula, fasio:farreum, arçlata: arculata.

La tauromachia italica
Il rito della fuga delle 12 giovenche (il numero risulta dalla tav. VII b) per le vie dell’abitato e della loro cattura si inquadra nella antichissima tradizione preindeuropea delle tauromachie di ambiente mediterraneo, di cui sopravvivono ancor oggi diversi esempi. Il più famoso è forse la corrida di Pamplona; meno nota, ma in perfetta coerenza  è anche la “caccia del bove” a Montefalco (Perugia).

La barella rituale
Saranno casuali le coincidenze con alcuni aspetti dell'attuale preparazione delle barelle dei famosi Ceri di Gubbio? La dimensione della barella antica non poteva essere molto diversa da quella delle "barelle" dei Ceri, se sulla struttura dovevano trovare posto il porcellino e la pecora. Inoltre si scorge una similarità nel fatto che appena fuori dalla città, al "campo", si dovesse procedere all'assemblaggio delle parti della kletra, come in parte avviene per i "Ceri" quando, usciti dalla porta di S.Ubaldo, ripartono, come se la corsa avesse inizio da quel punto.
 Gli Antichi Umbri nella storia
 Il patto federale
Il sacrificio delle “riunioni tributarie” (Tavola II faccia b) ripete l’ antichissimo rituale della stipulazione del patto federale tra le comunità, patto sancito dalla Confraternita Atiedia, che della federazione stessa è espressione. La sacralità del "patto a dieci" e del dettato cerimoniale ormai costituitosi impedivano ogni variazione, sicché l'elenco dei contraenti, evidentemente variato nel tempo, è stato aggiornato attraverso un "escamotage": le comunità che hanno aderito al patto federale dopo la sua stipulazione iniziale sono entrate come estensione di una delle dieci comunità originarie, presentandosi insomma come "clonazioni" delle stesse.

La colletta del farro consacrante
È stata accuratamente valutata la quantità di farro selezionato che i due incaricati devono ricevere dalle varie comunità in occasione delle “riunioni tributarie”: si tratta in tutto di kg. 8,186, esattamente pari a un modio romano. Un quantitativo chiaramente simbolico e troppo scarso per permetterne la semina (per  uno iugero occorreva seminare 4 o 5 modii di farro), sicché non resta che ritenere che il farro raccolto dai due uomini fosse destinato a divenire farina consacrante, poni frehto (F.Roncalli, Sulla cultura del farro nell’Italia Antica, Atti del Convegno CEDRAV 1995).

Il nome degli Umbri
Nelle tavole non compare mai il termine “Umbri”, anche se è certo che fin dalle epoche più remote questo nome fosse usato in riferimento agli abitanti di una vastissima zona tra il Po e il Tevere, come testimoniano gli storici greci. Non va poi dimenticato che in una iscrizione picena arcaica si dice “nell’agro Umbro” (ombriìen akren) e che un personaggio in territorio etrusco si firmava Ombrikos nel VI sec.a.C.

L’unità culturale umbro-piceno-sabina
Si può anche assegnare un supporto archeologico all'unità culturale che nei primi secoli del primo millennio a.C. abbraccia il mondo piceno, quello umbro e quello sabino. Già all'inizio degli anni Sessanta si era infatti individuata la sostanziale unità delle facies culturali dell'intera area nei secoli dal IX al VI a.C. In particolare: l'identità del sistema di sepoltura, costituito dalle cosiddette tombe a circolo, la presenza dello stesso culto della dea Cupra, l'usanza di porre nei santuari i bronzetti votivi del cosiddetto Marte italico, l'impiego di dischi ornati come pettorale e schienale di corazza (si pensi al tipo rappresentato nel famoso guerriero di Capestrano). L'epoca di pertinenza dei reperti garantisce che si ha di fronte una serie di manifestazioni della cultura "safina", la cui uniformità è certamente stata favorita dall'uniformità del sostrato ("paleoumbro") già presente nel territorio. Né per oggetti come questi si può pensare al fenomeno della diffusione lungo linee commerciali, giacché si tratta in buona parte di evidenti espressioni di ideologia, culto e tradizione comuni, come è dimostrato da diversi passi delle Tavole di Gubbio.

L’incontro con le grandi potenze
L'esistenza di una realtà politica umbra diviene un fatto storico quando la tradizione letteraria attesta la partecipazione degli Umbri  come alleati degli Etruschi alle spedizioni contro Cuma e la Campania, nel VI sec. a.C.; avventura che si concluderà con la sconfitta di fronte all'alleanza tra Cumani e Romani. Iniziano così indirettamente le ostilità tra Umbri e Romani, che durarono due secoli, senza tuttavia che la tradizione storica ne abbia fatto un tema di rilievo.

La penetrazione romana
Nel 310 a.C. il console Fabio Massimo Rulliano stabilisce un patto di alleanza con la tota umbra di Camerte (odierna Camerino) e nel 309 un'altra tota umbra, Ocriculum (odierna Otricoli), diviene alleata di Roma. Nel 299 Roma conquista la tota umbro-sabina di Nequinum e vi fonda la colonia romana di Narnia (odierna Narni). Nel 295 nel territorio della tota umbra di Sentinum cade il baluardo che si opponeva alla penetrazione romana verso nord. L'unico tentativo serio di ribellione a Roma dopo quella data sarà quello degli Umbri di Sarsina, conquistata definitivamente nel 266 a.C.


I prestiti linguistici
Le tavole iguvine recano iscritte 4365 parole in tutto. Ma considerate le frequenti ripetizioni e le varianti morfologiche (diverse forme di uno stesso verbo o di uno stesso nome), le voci umbre che le tavole ci permettono di conoscere sono circa 700.
Esistono alcune parole che ricorrono uguali o con minime variazioni  in ambito umbro ed etrusco, altre che ricorrono in ambito umbro e romano: per inconfutabili ragioni di fonetica storica o di morfologia della parola è quasi sempre necessario assegnare  l'origine di tali voci all'ambiente umbro, e non a quello etrusco o a quello latino. E poiché è una "legge" storica che i prestiti lessicali avvengano dalla lingua dell'ambiente più prestigioso a quella dell'ambiente meno prestigioso (almeno relativamente al settore delle attività umane cui la parola si riferisce), l'esistenza di prestiti umbri in etrusco e in latino va evidentemente interpretata come l'indizio di una antica "superiorità" culturale del mondo umbro rispetto agli altri.
Numerosi prestiti umbro-sabini sono penetrati in latino, e di lì in italiano. Ancora oggi usiamo parole che sono attestate per la prima volta nelle Tavole di Gubbio:
• nomi come via, arbitro, autorità, pontefice, pio, famiglia, popolo, soglia, tetto, aia, vaso, cibo, vino, carne, scapola, picchio, vitello, capro, ecc.
• verbi come stipulare, tacere, portare, curare, ecc.
• aggettivi come saldo, salvo, sacro, scritto, ecc.